Tante persone, a sinistra soprattutto e, spesso, con perfidia descrivono il Pd come la “nuova Dc”. In genere, questa lettura dipende sia dall’elevato numero delle opinioni interne (in gergo: “le correnti”), sia per la comune vocazione a ritenersi l’architrave del sistema governativo.
Non è la chiave di lettura corretta. Intanto perché la Dc era un partito con una radice culturale omogenea e, almeno a prima vista, inattaccabile. Certo, un partito articolato e composito ma saldamente ancorato alla cultura cattolica. Il PD, al contrario, è da ritenersi un partito con diverse anime nato per la fusione di culture e di filoni ideali profondamente diversi tra di loro ma accomunati dalla spinta riformista e da una forte cultura di governo.
Se poi, nella Democrazia Cristiana, esisteva la degenerazione correntizia, per dirla con a Donat-Cattin, le “correnti di pensiero” rappresentavano una specificità e una qualità che contribuivano a guidare un grande partito popolare, di massa, interclassista e di governo. Le correnti davano vita al dibattito politico interno e esterno. Certo questo dipendeva sia dall’elaborazione politica e culturale dei pensatori, che dall’organizzazione profondamente democratica. Accanto, ovviamente, a gruppi vari di potere legati a mere cordate clientelari e di tessere.
Nel PD la continua proliferazione delle correnti, piuttosto che a movimenti di idee con un preciso progetto politico utile alla costruzione di un dibattito tra i diversi ideali presenti, somiglia più a gruppi organizzati alla ricerca del potere.
Ma la più forte delle degenerazioni della politica è stata introdotta dalla discesa in campo del presidente Berlusconi con la forte personalizzazione della politica e della gestione padronale del partito e questa, si deve sottolineare, è sempre stata aliena alle storie culturali dei due blocchi che hanno portato alla nascita del PD.
Sempre meglio un partito un po’ balcanizzato e confuso che un partito guidato da uno solo, che si caratterizza soltanto per la strategia del capo senza democrazia, senza rispetto della partecipazione interna e delle minoranze.
Perché la conservazione della democrazia, resta la strada maestra da seguire rispetto alle intuizioni di un dibattito contemporaneo che hanno come effetto di incrementare la deriva autoritaria e illiberale delle stesse istituzioni.
Questa premessa sulle differenze evidenti fra DC e PD serve a introdurre l’altra riflessione che voglio condividere con voi: il PD non è la Dc e questo è chiaro. Rischia, invece di fare la stessa fine.
Andiamo per ordine.
I risultati delle elezioni del 25 settembre, rendono evidente la cristallizzazione del livello di consenso del Pd intorno al 20[%]. Per la verità, rispetto alle precedenti politiche, il consenso è aumentato (di quasi 900.000 voti). Paragonato, ad esempio al M5S che invece in pochi anni vede dimezzato il numero dei voti, questo quadro avrebbe potuto indurre Letta a considerarsi fra coloro che hanno vinto. Eppure nell’opinione pubblica il vincitore sembra Conte (uscito per altro dalla presidenza del consiglio non proprio indenne nella considerazione degli stessi elettori 5S…).
Ecco allora che la reazione di Letta è stata quella di rimettere tutto del PD, ma proprio tutto, in discussione. A cominciare dal nome. Le regole, la leadership, le politiche, i progetti e gli uomini. Addirittura mettendo in discussione l’esistenza stessa del Pd…
Esattamente quello che successe alla Democrazia Cristiana che, invece di lavorare sulle nuove idee per intercettare la volontà degli elettori decise di sciogliersi per finire in mille rivoli inconsistenti e, sicuramente, politicamente inconcludenti… Hanno gettato via il bambino con l’acqua sporca, provocando l’inconsistenza politica dei cattolici sia a destra che a sinistra, nei partiti.
Non è un caso che oggi, a fronte di una richiesta onesta intellettualmente di pensatori laici che invocano una rinnovata presenza dei cattolici a farsi sentire nella società italiana, i pensatori cattolici non sono mai politici, ma semplici cristiani impegnati a vario titolo in ambito ecclesiale. Anzi, se qualcuno ci prova, viene completamente risucchiato dai flutti dell’inconsistenza politica e irreggimentato nei ranghi in nome della laicità dei partiti. Oppure sono spesso considerati poco più che personaggi di secondo piano (penso, ad esempio, ad Adinolfi…)
Allora, secondo me, bisognerebbe ripensare seriamente al ruolo del partito, che non deve essere semplicemente un “partito liquido”, un mero collettore della «voce» dei cittadini, il megafono di «quel che vuole la gente».
Un partito ha il compito di plasmare l’opinione pubblica e il senso comune. Esso deve dirigere e orientare il dibattito politico. Esso ha l’incombenza di fornire idee nella discussione pubblica.
La ricerca di una nuova collocazione all’interno della società italiana del PD passa sicuramente per la discussione interna al partito stesso. Ma occorre alzare gli occhi dalla propria pancia e va ricercato un orizzonte più ampio e attrattivo, specie per i giovani. Ragazze e ragazzi che non si riesce a inquadrare politicamente perché portatori di idee del tutto diverse da quelle su cui finora hanno riflettuto i politici nel PD. Si può e si deve discutere, ci si scontra, si cerca di formare un orientamento comune, si definiscono infine le linee prevalenti. E si presentano alla società.
Quindi non è necessaria la cancellazione del PD, ma una sua palingenesi.
E, forse, la chiave di tutto è il circuito tra la discussione pubblica e interna al partito e le procedure per legittimare le decisioni democratiche.
Il tentativo delle “agorà” ha cercato di ricreare un partito “aperto”, creando spazi di partecipazione in cui tutti potevano discutere e votare…
Ma bisogna seriamente domandarsi perché hanno fallito il loro scopo.
Certamente la prima difficoltà è da ricercarsi nella estensione delle tematiche. Con 10 o 20 iscritti si poteva parlare di tutto e ogni cosa. Ma qual è il reale livello di consenso politico della proposta?
Anche l’idea di ricorrere alla partecipazione «civica» o «dal basso», non sempre è garanzia che la qualità delle proposte che potrebbero essere formulate, implichi un impatto importante sulla politica e, alla fine, sulla società. Si è capito che le primarie «vecchia maniera» non offrivano occasione di confronto né possibilità di discussione tra gli iscritti. A questo punto si deve evitare di continuare ad arrivare al momento del «voto aperto» facendo il salto a occhi chiusi, con tutto ciò che questo significa e ha significato nella storia del PD: cioè un impoverimento degli elementi organizzativi del partito e, peggio ancora, con uno svilimento del ruolo degli iscritti e dei militanti.
Inoltre chi, alla fine, all’interno del partito avrebbe dovuto garantire la trasformazione delle idee in proposte politiche, non l’ha fatto. La vecchia leadership vive di rendita di posizione e, finora, è chiaro che non intende rinunciarvi…
Infine, sarebbe utile aprire anche una riflessione sulle “primarie aperte”. Non sempre la totale trasparenza e democrazia è il veicolo realmente valido per la scelta della linea politica del partito e la scelta ottimale del segretario.
Allora, in conclusione, in vista delle scelte che il PD dovrà compiere nel 2023, si impone un drastico processo di chiarimento che secondo me non deve passare per lo scioglimento del Partito. Penso a un congresso nel senso originario della parola: concepito per condurre alla definizione di un partito rinnovato, popolare, interclassista e con legittime pretese di governo alternativo alla destra. Solo così avrebbe senso incoraggiare e promuovere l’appello rivolto a forze esterne, ad entrare (o rientrare) nel PD.
No review yet.