Nel nostro tempo sentiamo ripetere la parola globalizzazione quotidianamente, sia nel bene che nel male. E’ convinzione generale che viviamo in un tempo dove tutto è interconnesso, dove lo spostamento di una qualsiasi cosa provoca contraccolpi anche a grandi distanze, l’unico dato, certo e condiviso, è la complessità con la quale dobbiamo fare i conti quotidianamente.
Questa complessità, insita nella globalizzazione, è più marcata ed evidente in quei Paesi, come l’Italia, ostaggi di una serie di emergenze strutturali che confliggono con gli assi portanti della globalizzazione.
L’epoca della globalizzazione dà ragione a Giordano Bruno quando parlava dell’infinità dei mondi.
Più che mai attuale è il pensiero del filosofo Edgar Morin che parlando dell’uomo afferma “siamo dunque esseri sia fisici che biologici, sia culturali che spirituali e cerebrali, ma soprattutto cosmici. Infatti, la terra è una totalità complessa fisica-biologica-antropologica; l’uomo stesso non può essere disgiunto dalla natura, esso ha infatti origine dalla natura vivente e fisica e, nello stesso tempo, se ne distingue ed emerge attraverso la cultura, il pensiero e la coscienza”, “Infatti il concetto di uomo è legato sia all’origine biofisica che a quella psico-socio-culturale che si richiamano a vicenda; cioè noi siamo nati dal cosmo, dalla natura e dalla vita ma a causa della nostra cultura, della nostra mente e coscienza siamo diventati estranei a questo universo. L’uomo è, quindi, un essere pienamente biologico e nello stesso tempo un essere del tutto culturale”.
I fondamenti che guidano la globalizzazione hanno messo in crisi il nostro modo di vivere e ci obbligano ad elaborare un nuovo percorso culturale che superi il modo di pensare dei secoli diciannovesimo e ventesimo, e che sia capace di educare gli educatori al pensiero della complessità. Non è più sufficiente oscillare tra la cultura umanistica e la cultura scientifica, la prima ci aiuta a riflettere sui fondamentali problemi umani, la seconda divide i campi della conoscenza, produce scoperte straordinarie, ma non promuove la riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa, molti autori sostengono che la cultura umanistica alimenta l’intelligenza generale, mentre quella scientifica separa ed è settoriale.
La parola che ogni giorno angustia il modo di vivere è la “complessità”. Parola non facile da definire, ma può essere sintetizzata nel concetto “v’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto”.
In Italia le metodologie e le procedure insite nella globalizzazione economica hanno creato grandi danni al sistema Paese basato come è sulle piccole e medie imprese. In Italia ci sono circa 4,5 milioni di imprese, di queste all’incirca solo 500 mila fanno buoni profitti, i restanti 4 milioni rappresentano una anomalia nell’ambito del sistema economico-finanziario che indirizza la globalizzazione.
Questi 4 milioni di imprese rappresentano l’eccezione nell’abito di un sistema economico globalizzato, la cultura prevalente non riesce a capire come fanno a sopravvivere nonostante che le banche non concedono loro credito, nonostante che debbono pagare tasse sulle perdite, nonostante l’aver in certi momenti la pubblica amministrazione contro, nonostante il deficit della rete infrastrutturale, eppure riescono a stare in piedi.
Questi 4 milioni di imprese rappresentano un modello alternativo, sono la punta dell’iceberg del nuovo modello culturale che la complessità ritiene indispensabile per evitare che un sistema mondiale, “intrecciato” come quello in cui viviamo, trovi il suo punto di equilibrio finale in una catastrofe cosmica.
In Italia le ricadute negative sul sistema sociale e su quello delle imprese sono evidenti e sono esaminate in profondità e con attenzione. La burocrazia e il fisco, sono il vero blocco allo sviluppo del Paese. Un freno alla fuoriuscita dell’Italia dalla crisi che la attanaglia e alla ripresa di un’economia che potrebbe contare sull’enorme potenzialità della quale dispone. Una potenza inespressa, imbrigliata e condizionata da un sistema di regole e vincoli soffocanti. L’avvio del percorso di riforme che il governo sta tentando di imboccare è l’unica via di uscita possibile, sempre che si riescano a superare le resistenze interne al nostro sistema che lottano per il mantenimento dello status quo, fatto di privilegi, corporativismi, spartizioni e interessi consolidati.
«Mentre l’economia va a rotoli e la società vive un pericoloso processo di disarticolazione - dichiara il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara - assistiamo al trionfo di un apparato burocratico onnipotente e pervasivo in grado di controllare ogni momento e ogni passaggio della nostra vita».
La burocrazia influisce su tutto, tocca e regola ogni livello di attività sociale. E su di essa, naturalmente, si scaricano le tensioni e l’astio di coloro, che di volta in volta se ne sentono vittime.
Sempre secondo il Presidente dell’Eurispes: «Con l’incredibile incremento della produzione legislativa necessaria a regolare la nuova complessità sociale ed economica, la burocrazia da esecutore si è trasformata prima in attore, poi in protagonista, poi ancora in casta e, infine, in vero e proprio potere al pari, se non al di sopra, di quello politico, economico, giudiziario, legislativo, esecutivo, dell’informazione».
Una burocrazia che, secondo Fara, ingloba in sé il momento progettuale (la preparazione di leggi, misure, regolamenti); organizza i percorsi di approvazione, di emanazione e di applicazione; determina sanzioni; gestisce e distribuisce le risorse, non ha bisogno della politica se non come simulacro, come involucro che serve a salvare la forma. Nella sostanza, essa stessa si è fatta politica.
Questo progressivo allargamento del ruolo della burocrazia non può essere attribuito solo alla sua “volontà di potenza” o ad un innato moto riproduttivo. Esso è piuttosto la conseguenza della perdita di ruolo e di credibilità della politica e della sua capacità di rispondere ai cambiamenti sociali e culturali, alle sfide economiche, alla complessità e alla globalizzazione.
Le condizioni del nostro ordinamento giuridico e istituzionale sono diventate di grande e crescente complessità, e quindi di difficoltà anche per gli addetti ai lavori. È pressoché impossibile interagire con le istituzioni pubbliche senza il contributo e l’intermediazione dello specialista. Le leggi, che in linea di principio sono rivolte ai cittadini, in realtà sono intelligibili solo dagli addetti ai lavori, e in concreto sono scritte soprattutto per essi.
Nella società contemporanea si assiste alla convergenza, apparentemente paradossale e scientificamente molto interessante, fra i seguenti fenomeni: aumentano le leggi, aumentano gli illeciti, aumenta il potere discrezionale dei magistrati. Il corollario è l’aumento del giudiziario. La forma astratta e generale della legge non regge il confronto con la complessità: della società (la democrazia); dell’economia (le dimensioni monopolistica e finanziaria); delle funzioni pubbliche (lo Stato sociale); delle tecnologie (della comunicazione); del mondo (la globalizzazione); della conoscenza (epistemologia e cultura della complessità).
Questi quattro milioni di microimprese e di imprese familiari si trovano immerse in questo contesto socio-economico, gli obiettivi che si sono dati, oltre ad essere un modello di profitto e di gestione delle risorse reali, permettono loro di avere una struttura proteiforme che si avvicina ai segni distintivi della nuova cultura dei sistemi complessi.
E’ interessante esaminare quali sono le caratteristiche che permettono a queste imprese di rappresentare il futuro socio-economico in una globalizzazione dove regna la complessità.
Il primo concetto che il piccolo imprenditore ha imparato a proprie spese è quello della “precarietà”, precarietà conseguente a quanto illustrato precedentemente sui criteri di gestione statuali, che hanno allontanato il sistema dall’equilibrio, il piccolo imprenditore se non vuol precipitare nel caos deve cercare un nuovo equilibrio sui bordi del caos, equilibrio aziendale che sarà completamente diverso da quello precedente.
Il secondo concetto è rappresentato dalla “resilienza” che è la caratteristica fondamentale della micro-impresa, questo dono permette al piccolo imprenditore di attutire i contraccolpi del sistema politico economico senza perdere il proprio equilibrio.
Il terzo concetto è rappresentato dalla “ridondanza”, capacità del piccolo imprenditore di rinunciare a qualche cosa pur di non mettere in crisi l’impresa.
La ricchezza fondamentale della micro impresa è rappresentata dalla sua “capacità adattativa”, che le permette di ritrovare con velocità un nuovo equilibrio dopo avere perso quello precedente.
In una società complessa la capacità della micro impresa di auto organizzarsi rappresenta il punto di forza del sistema, che non ha bisogno di fattori esterni ma solo delle interazioni locali tra i componenti. Una complessità che ha per radici la glocalizzazione. Una complessità risolta da iniziative “bottom up”.
Questo modello di economia reale si oppone al modello imperante dell’economia finanziaria.
Questa situazione così complessa e abbandonata a se stessa ha inoculato nei piccoli imprenditori la “sindrome della lumaca”. Come la chiocciola il piccolo imprenditore, diventato cauto e timido, al primo segnale di pericolo si ritira nella sua bottega.
Quando si ritira nella sua bottega cerca attraverso l’auto-organizzazione di affrontare la precarietà che lo circonda, e esamina a cosa può rinunciare o fare a meno pur di continuare a fare il suo mestiere.
Lo stato d’animo che innesca la “sindrome della lumaca”, è uno status che ha come unico obiettivo la sopravvivenza dell’azienda, che deve essere riorganizzata in modo da subire il meno possibile i contraccolpi delle politiche pubbliche, una azienda che deve utilizzare al massimo le risorse umane e tecnologiche che ha a disposizione.
La sindrome della lumaca non contempla ne investimenti, ne espansione, ne assunzioni.
L’Italia è un paese che vive una stagnazione che rischia di durare molti anni se non vengono fatte le riforme e semplificate le procedure. Le imprese medio grandi che esportano possono garantire dei posti di lavoro e delle entrate tributarie, ma la rilevanza di tali politiche non potrà che incidere per qualche decimo di punto sul PIL.
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